Curiel: tra passato, presente e futuro di uno dei simboli del Made in Italy nel mondo

L'iconica maison milanese raccontata da Gigliola Castellini Curiel

20 luglio 2020

Per raccontare la storia di Curiel – una delle maison simbolo della sartoria haute couture Made in Italy – si deve tornare indietro di quattro generazioni. La storia della maison è fortemente radicata in quella italiana: è nel secondo dopoguerra, nel ’45, che Gigliola apre la prima sartoria Milano. Le sue creazioni diventano subito un punto di riferimento per le signore dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, che rimangono letteralmente stregate da quegli abiti chic e sofisticati che la sartoria produce. Durante il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, gli abiti Curiel sono protagonisti di molte occasioni dell’alta società milanese, come le prime della Scala, e i disegni di Gigliola – tra cui il rinomato Curiellino – hanno così successo, che la stilista diventa la prima italiana a disegnare collezioni esclusive per grandi department stores, come Harrrods a Londra e Bergdorf & Goodman oltreoceano.

All’inizio degli anni Sessanta Gigliola viene affiancata dalla figlia Raffaella, che poco dopo prende le redini della maison, introducendo le collezioni prêt-à-porter e l’amatissima linea couture – gli scenici défilé sono omaggi a grandi nomi, come Klimt, Goya, Velasquez e Schiele, ma anche tributi all’arte africana, indiana e messicana. Pur continuando a sviluppare la sua tecnica sartoriale, tra plissé, ricami tridimensionali e tessuti pregiati, Raffaella rimane icona di stile senza tempo.

Oggi è Gigliola, figlia di Raffaella, a firmare le collezioni Curiel, per le quali trae ispirazione dalla strada, dalla vita di tutti i giorni: “mi piace molto osservare la gente, mi piace sognare come rendere più belle le donne; vedere le persone e capire come ciò che indossano potrebbe essere trasformato per renderle più affascinanti.” Gigliola, che ha studiato Economia e Commercio con l’intento di occuparsi di licenze, viene invece rapita dall’aspetto creativo dell’azienda familiare. “Credo sia una questione di DNA, perché con la moda ci sono nata,” racconta, “da bambina andavo in atelier a cucire i vestiti per le bambole e, per una bambina, essere in quel mondo è come essere in una fiaba. È stato un inizio sognante.” Durante gli studi, Gigliola frequenta le classi serali alla Saint Martins di Londra, e dopo una breve esperienza da Max Mara inizia ad affiancare la mamma, a conoscere le stoffe e a toccare con mano quello stile sicuro e riconoscibile che caratterizza le creazioni del brand. Nel ’98 Gigliola debutta con la prima linea prêt-à-porter, e da allora le sue collezioni si consolidano come esempi di qualità, eleganza e del saper fare tutto italiano.

Dopo la joint venture di tre anni fa con il gruppo cinese Redstone, Gigliola ci racconta come è cambiato oggi il mondo Curiel, una realtà molto più concentrata sul prêt-à-porter: “prima avevamo un prêt-à-porter un po’ sui generis perché era un ‘su misura’, con una piccolissima distribuzione ai negozi multimarca e poi invece molto customizzato per le nostre clienti, con trunk show in giro per il mondo. Con questa joint venture, abbiamo rivisitato il prêt-à-porter in chiave moderna, soprattutto in Cina, dove abbiamo venti negozi monomarca.”

Nonostante ciò, la qualità dei tessuti e le riconoscibili linee pulite sono rimasti capisaldi dell’estetica Curiel. “Venendo da una famiglia di tessutai da parte di mio papà, io sono sempre stata attenta alla scelta dei materiali; ho sempre giocato su quello anche perché lo stile Curiel è sempre stato molto pulito,” dice Gigliola. “Utilizziamo quasi sempre tessuti prodotti apposta, o tessuti di base che poi uniamo per ottenere tridimensionalità e movimento. Anche le fantasie sono tutte disegnate da noi in esclusiva.”

In Cina, come in tutto il mondo, il LBD firmato Curiel – il Curiellino – è gettonatissimo. “È un passe-partout, un po’ come la coperta di Linus,” racconta Gigliola. È un abito che va bene da mattina a sera, che si è saputo adattare ai bisogni della donna d’oggi, che è costantemente rivisitato, ma che ogni volta si distingue per la sua natura moderna e trasformativa. “Per noi, il Curiellino dovrebbe essere un abito in cui le donne si sentono veramente a loro agio. Negli ultimi anni, la figura della donna è cambiata tanto, sia in fatto di fisicità che per quanto riguarda il suo ruolo nella società. Adesso noi donne abbiamo una vita molto più frenetica, dobbiamo essere più comode. Il concetto del Curiellino si trova sempre al passo con i tempi, perché rappresenta proprio quello che non abbiamo più tempo di fare, di cambiarci…”

Anche il concetto di lusso oggi è cambiato: se prima era legato più al rapporto tra l’artigiano e il cliente (a cui Curiel tiene ancora tantissimo) e agli abiti personalizzati, per Gigliola oggi vuol dire più immagine, brand e appartenenza. E sebbene Curiel non abbia mai lasciato il calendario della moda e la sua stagionalità – “siamo sempre stati a gestione familiare, e nonostante la forza del nome, abbiamo meno forza comunicazionale e finanziaria di altre maison,” dice – lei stessa, come molti altri stilisti, si unisce ad Armani per prospettare un futuro della moda più slow, meno spettacolare, dove i vestiti tornano a contare e il ‘fatto bene’ è di nuovo la parola d’ordine del Made in Italy, “il saper fare, l’artigianato e la qualità che ci sono solo qui, che ci contraddistinguono e continueranno a farlo” e che magari riusciranno a far ripartire la moda italiana con un ritmo un po’ più responsabile e sostenibile per tutti.

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