Napoli: capitale del guanto e dell'eccellenza sartoriale

«L'unica cosa che ci accomuna a un guanto industriale sono le 5 dita»

17 luglio 2021

È prima di tutto una questione di stile. La ricerca del bello alla base del Vesuvio è una costante dalla tradizione borbonica. Da un lato le concerie, con la selezione delle pelli più morbide che consacrano Napoli come capitale del guanto, dall’altro la sartoria partenopea, che ancora oggi è riconosciuta come un modello di eccellenza. «Il mio bisnonno iniziò l’attività nel 1923 ma suo padre prima di lui era già tagliatore di guanti», racconta Alberto Squillace – quinta generazione alla guida di Omega guanti, oggi in via Stella nel cuore del rione Sanità.

«Napoli è l’Università della pelle e del guanto. Se un tempo (nel 1920 circa) si contavano quaranta fabbriche con 7mila impiegati nel settore della guanteria, oggi ci contiamo sulle dita di una mano e siamo tutte famiglie che hanno trasmesso di padre in figlio il saper fare del mestiere». All’interno del laboratorio Omega ci sono cinque persone più alcune ricamatrici, cucitrici e foderiste che lavorano da casa. Il metodo non è cambiato nel tempo, per realizzare un guanto a regola d’arte servono ancora tutti i 25 passaggi, «dal taglio alla confezione, se si eseguissero tutte le fasi in un’unica stanza, si potrebbe realizzare un guanto in tre ore», sottolinea Squillace.

I segreti del guantaio sono parte del patrimonio di famiglia che si adattano al variare della materia prima naturale e delle richieste dei clienti internazionali (per il 90%). «L’unica cosa che ci accomuna con un guanto industriale sono le 5 dita. Noi lavoriamo ancora con l’unità di misura che chiamiamo pollici francesi, l’unica attendibile». Si tratta di un valore numerico che non esiste più dal 1700, il pollice francese (pari a 2,7cm) sarebbe equivalente a un dodicesimo del piede di Carlo Magno. «In pochi lo sanno, ma la misura perfetta si ottiene misurando la circonferenza del palmo e dividendo questa per i pollici francesi».

La maestria dell’artigianato napoletano si rivede anche nella storia della sartoria maschile. È il 1351 quando nella chiesa di S. Eligio al Mercato si fonda la Confraternita dei Sartori, per rispondere alle sempre più esigenti richieste dello sfarzo della capitale del Regno delle due Sicilie. Verso fine ‘400 si aggiungono le prime industrie laniere e i setifici, che collaborano allo sviluppo dell’alta sartoria che inizia ad essere conosciuta anche nel resto d’Italia. Nel 1611 a Napoli ci sono 607 sarti registrati e riconosciuti dalla confraternita ma nel secolo successivo l’influenza della moda francese ne diminuisce il prestigio. Sarà nell’800 che la raffinatezza degli abiti e la preziosità delle stoffe affascinerà re e capi di Stato. Dal 1930 Napoli si distingue dalla nota sartoria anglosassone promuovendo uno stile unico, meno ingessato e caratterizzato sempre da materie prime eccellenti lavorate a mano.

In quegli anni nascono le botteghe artigiane che ancora oggi rappresentano i grandi nomi della sartoria maschile partenopea: Marinella (1914), Eddy Monetti (nel 1887 come negozio di cappelli e dal 1937 come abiti e accessori), Rubinacci (1932) e Kiton (nel 1968).  Le cravatte, gli abiti su misura, la London House (chiamata così la prima sede di Rubinacci, ispirata allo stile di Saville Row di Londra ma che poi diventerà centro dello stile napoletano più confortevole) e la bellezza dei tessuti ricercata da Ciro Paone – partito da Arzano e arrivato nelle case più prestigiose del mondo. L’alta sartoria napoletana è un orgoglio, un prestigio e un bene da preservare.

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